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La “paura di peggiorare” accomuna le persone con Fibrosi Cistica, ed è legittima, da riconoscere e accogliere. Perché nasce? Come affrontarla? Vediamo insieme.

La prima medica a identificare e descrivere la FC fu una pediatra statunitense, Dorothy Andersen, nel 1938. All’epoca, il 70% dei pazienti non superava il primo anno di vita, ma da allora i dati sono notevolmente cambiati: i metodi diagnostici standardizzati, la mappatura del gene, la terapia antibiotica e il supporto nutrizionale hanno radicalmente trasformato la prognosi della malattia. L’aspettativa di vita si è progressivamente prolungata fino ad arrivare a oggi, quando i dati epidemiologici registrano un crescente e importante aumento del numero di pazienti adulti.

Lo psicologo che lavora in un contesto di tipo ospedaliero prende in considerazione la dimensione dei timori di progressione della FC che hanno i pazienti. La “paura di peggiorare” accomuna le persone con FC, ed è legittima, da riconoscere e accogliere. Ecco perché la medicina non si occupa soltanto della malattia e la psicologia soltanto del malato: solo un approccio integrato da parte di un’équipe multidisciplinare può rispondere alle reali esigenze del paziente.

La fisicità di un corpo è al centro di indagini, di esami e di accertamenti; viene radiografato, misurato, pesato e auscultato per monitorare tempestivamente segni e sintomi di un eventuale peggioramento. Ma anche la mente deve essere oggetto di attenzione e indagine: come la persona sta affrontando un momento clinicamente critico? Con chi si sta confrontando? Quali sono le risorse attorno a lui? E quali i progetti di vita realizzabili? Poter indagare i propri vissuti e potersi confrontare è fondamentale, perché la presenza di una malattia comporta, nella maggior parte dei casi, un percorso di elaborazione e accettazione lungo e faticoso, fatto di tappe, di passaggi verso il futuro o di immobilità o regressione. La FC, proprio per le sue caratteristiche di cronicità, impone dei cambiamenti sia fisici sia psicologici progressivi che richiedono, per essere affrontati adeguatamente, una ristrutturazione psicologica che consenta nuovi adattamenti e nuovi equilibri. Diventare “abili” a rimaneggiare elementi psichici serve sia a integrare le cure con le normali tappe evolutive di crescita che a fronteggiare ricadute e progressioni di malattia.

La paura di peggiorare è condivisibile, connessa alle richieste e ai bisogni da gestire, dunque da affrontare senza penalizzare, dove possibile, l’autonomia e favorendo un processo di normalizzazione e ristrutturazione. La paura non deve influire in modo pervasivo sulla qualità di vita delle persone, sconvolgerne, a prescindere, progetti e piani di vita. La paura, certo, può aumentare in talune circostanze, come in casi di visite e/o ricoveri frequenti, può minare l’autostima, l’autonomia e la pianificazione – oltre che la propria identità e il proprio ruolo. La paura può far insorgere condotte di evitamento o di dipendenza, a volte di ipervigilanza, sentimenti di rinuncia, vissuti depressivi e di passività.

In età più adulta, poi, la paura può ulteriormente aumentare, perché temi che riguardano la malattia si sommano alle paure connesse alla realizzazione dei progetti di vita. Anche l’acuirsi dei sintomi della malattia e il carico maggiore di cura e/o il ricorso al trapianto di polmone possono causare preoccupazione, ansie e paure, oltre a un profondo senso di solitudine.


Il peggioramento delle condizioni di salute comporta uno stato emotivo di timore rispetto al futuro: in un contesto così pesante, in termini di esiti e di imprevisti come quello della FC, è importante poter contare su un luogo di espressione e di elaborazione dei propri vissuti emotivi. Per tale ragione è fondamentale analizzare aspetti impliciti e latenti, oltre a quelli espliciti, della domanda della persona: identificare la richiesta, incontrare la “specifica paura” della persona, affrontare la realtà attraverso strategie di coping e condivisione dei vissuti. Verbalizzare, sentire accolta la paura, poter sviscerare i timori con qualcuno di competente, esperto e che conosca il problema è il primo passo. Saper applicare strumenti di screening per la rilevazione di aspetti psicologici, inoltre, è utile per evitare (o contenere) lo sviluppo di una franca psicopatologia (come sottolineato dall’International Committee on Mental Health in Cystic Fibrosis del 2015), ma anche per fornire strategie di utilizzo della paura a promozione della compliance.

La malattia è stressante, implica un impegno di cura quotidiano, richiede l’impiego di grandi risorse di adattamento, coinvolge la persona e l’intero entourage familiare e relazionale di riferimento, richiedendo, in certe fasi di malattia, un ri-modellamento degli equilibri personali, relazionali e familiari. Il rimaneggiamento della concezione del proprio stato di salute, delle sicurezze personali correlate e la riflessione “obbligata” sul significato della vita rappresentano punti focali di investigazione nel caso di patologia cronica degenerativa. In generale, la malattia fisica, in special modo se cronica, può far insorgere ansia, depressione, paura e angoscia psicologica: circa un quarto dei pazienti affetti da gravi problematiche medico-croniche sviluppa, clinicamente, sintomi psicologici. Il monitoraggio costante e continuativo è utile per poter cogliere segni dell’eventuale insorgenza di problematiche di disagio psicologico e di paura sia del paziente sia dei suoi caregiver.

Il team di specialisti deve essere ben consapevole della fisiologica tendenza a demoralizzarsi come conseguenza di svariati problemi di salute, deve essere capace di riconoscere i bisogni psicologici e offrire informazioni che aiutino, implementando tecniche terapeutiche, e richiedere un’eventuale supervisione da parte di professionisti che si occupano della salute psicologica.

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