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di: Dott.sse Alessia Grande e Cristiana Risso

Psicologa Clinico e Psicoterapeuta, A.O.U. San Luigi Gonzaga (Torino)
Psicologa e Psicoterapeuta, A.O.U. Città della Salute e della Scienza (Torino)

In ogni nucleo familiare esistono dinamiche ed abitudini peculiari, che in qualche modo si tramandano nelle generazioni, rendendo unica ogni realtà che si prenda in considerazione.

Come già affrontato nell’articolo: “L’impatto della comunicazione di una diagnosi di malattia sulla coppia genitoriale: i risvolti sull’intero nucleo familiare”, ogni genitore ha i propri tempi e le proprie modalità per metabolizzare l’evento malattia e per affrontare la nuova realtà.

Il poter affrontare con il proprio figlio/a le prime informazioni sul suo stato di salute dipenderà da molteplici variabili: la struttura di personalità, le risorse psicologiche e sociali, l’apertura e la disponibilità al dialogo, l’aver accettato la diagnosi del proprio bambino, la qualità della comunicazione con l’equipe curante.

Testimonianze

  • M. 22 anni: “I miei genitori non mi hanno mai messo a tavolino per spiegarmi la situazione; mi hanno sempre fatto vivere le cure, la vita in ospedale e tutto il contorno come un qualcosa che fosse il più normale possibile, spiegandomi fin dall’inizio cosa dovevo fare e soprattutto il motivo. Quando da piccolo facevo le terapie, sapevo che era per il mio bene e quindi le facevo con tranquillità, dato che poi stavo meglio. Io penso che questo rapporto con la malattia è stato la cosa più normale di tutte quasi come camminare, per cui non ho avuto bisogno di una spiegazione. Io non ho mai fatto ricoveri fino ai 15 anni, quando ormai si presume che uno sia consapevole a 360 gradi della propria situazione di salute. Inoltre, non ho mai subito operazioni.
    Da piccolo il rapporto con la malattia era sempre lo stesso, con sempre le stesse terapie (a volte qualche antibiotico) e sempre le stesse visite ricorrenti con lo stesso personale sanitario che, per quanto mi riguarda, ha contribuito largamente a rendere il rapporto con la malattia e con gli ospedali il più normale possibile””.

Ricevere spiegazioni dalle figure di attaccamento, a mano a mano che sorgono domande o dubbi è ciò che agevola un rapporto con la malattia fatto di conoscenza e consapevolezza.

È difficile dare una spiegazione scientifica a tavolino tutta d’un fiato, avrebbe anche poco senso; meglio accompagnare nelle varie tappe di sviluppo ed integrare le informazioni a mano a mano che il piccolo paziente cresce ed è sempre più in grado di integrare cognitivamente e psicologicamente i diversi contenuti relativi al proprio stato di salute.
Nella comunicazione gli attori sono ovviamente più di uno: medici, psicologo e genitori primi fra tutti.

  • S. 23 anni: “I miei genitori non mi hanno mai nascosto niente; più che altro mia madre, perché con mio padre parlo poco in generale, non solo della malattia. Quando ero piccola era sempre mia mamma ad accompagnarmi alle visite e a stare con me durante i ricoveri. Mi ricordo una delle prime domande che le feci, forse in prima media: “Non guarirò mai? Durerà per tutta la vita?”. Mia mamma si era messa a piangere e poi mi aveva spiegato della trasmissione genetica. Dopo pochi giorni, abbiamo anche fatto un incontro coi medici del Centro e mi avevano spiegato tutto con chiarezza”.

A volte una comunicazione circa la diagnosi deriva proprio da un dubbio o una domanda diretta. È importante sentirsi legittimati a chiedere, a sapere. In genere chi non chiede non è colui che già sa o non vuole sapere, piuttosto è colui che “sente” che quell’argomento è un tabù, è troppo delicato ed è meglio non soffermarsi. Questo porta ad una ricerca solitaria sul web, che senza essere filtrata e mediata, può risultare ansiogena e poco esaustiva.

  • A. 19 anni: “Appena ho raggiunto la maggiore età ho voluto affrontare le visite da solo. I miei genitori si preoccupano troppo, non mi fanno fare le cose per paura che mi ammali… questa però non è una vita. Io mi curo e faccio attenzione, però voglio anche vivere. Da bambino era tutto un no e questo mi faceva male, mi faceva sentire diverso. Mi arrabbiavo molto. Da piccolo non ricordo alcuna spiegazione sulla mia malattia. A volte mi dicevano che mi ammalavo più spesso e i miei polmoni erano più delicati. Ho scoperto da solo la mia malattia, leggendo un cartello fuori dagli ambulatori e mi sono preoccupato molto. Quel giorno ho chiesto al medico perché facevo la spirometria ed ho ottenuto molte informazioni; abbiamo sfogliato insieme la mia cartella clinica, i miei 12 anni di allora e mi sono sentito rassicurato”.

I non detti spesso sono più pericolosi e dolorosi delle comunicazioni chiare e veritiere, non fanno che posticipare un momento che prima o poi deve arrivare e se arriva troppo tardi lascia il giovane paziente in balia di timori e insicurezze.
Sia i genitori sia i pazienti dovrebbero poter sperimentare all’interno del centro di cura la disponibilità e l’apertura al dialogo, senza sentirsi soli in questo arduo compito di ricezione e condivisione di informazioni uniche e preziose.

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